di PAOLO RUMIZ

Galizia polacca.. Andrzej segue le piste dell’altro mondo come un segugio, le sente anche nel buio. Oltre una scritta “Zwolnij! Rysie!”, attenzione linci, lo vedo agitarsi più del solito e consultare le mappe. C’è qualcosa, oltre il diaframma della notte. E difatti, in vista del paese di Krempna, poche case e una segheria, eccolo gridare “That side! That side!”, di là, da quella parte, per farci sterzare alla disperata in mezzo a un tornante. Nel lampo dei fari, è stato l’unico a vedere, sulla destra, lo sterrato per il cimitero austro-ungarico numero sei, annidato in un boschetto di abeti magri, in cima a un’impercettibile altura.

Scende con impeto polacco, trabocca di sospiri, è impaziente e felice. Ci guida con passo di Cheyenne verso un buio pieno di bisbigli, finché appare un muro perimetrale rotondo, un ingresso ad arco con due alte croci in pietra e un cerchio di pilastri stile Stonehenge al centro di un arcipelago di croci. “Qui potrai accendere le tue candele” mi sussurra. La Russa tace, non l’ho mai vista così silenziosa. La torcia fruga nel buio, illumina una targa che dice “Restauro del luglio 1990 a opera dei soldati del 54° reggimento della Stiria, successori del reggimento austroungarico chiamato ‘Re dei Belgi’, numero 27”.

Ventisette! Tuffo al cuore, soprassalto, commozione. Nell’anagrafe di quell’immensa armata perduta, il numero sette è un riconoscimento infallibile perché i reggimenti col numero sette schierano i miei vecchi, le dure scorze adriatiche temprate dalla bora. Ventisette come novantasette, la gloriosa marmaglia ingiustamente denigrata. Eccola la mia pista nella notte. Qui c’è puzza di gente mia, signori, lasciatemi solo, voglio cercare in pace i miei dalmati, i miei istriani, goriziani, triestini; parlare ai miei sloveni e croati della costa, e soprattutto a loro, i miei italiani “in divisa sbagliata”, di cui per quasi un secolo non si è potuto parlare.

Ma ecco dei passi sulla ghiaia. Mi giro in tempo per vedere l’ombra di uno gnomo che mi punta la torcia in faccia. Chi viene da disturbarmi proprio ora? Quando lo infilzo anch’io con la mia pila, la luce lo illumina e lo deforma, scavando ombre da seduta spiritica attorno a un bel naso e orecchie troppo lunghe sotto un ampio cappello da ranger. Deve essere proprio il guardiano dei Morti, quel tipo stagno dai sopraccigli folti, capelli d’argento e occhio azzurro-carpatico, che porta una camicia a quadri e un maglione rosso-fuoco sopra una pancia da taverna.

Restiamo a guardarci un po’ in silenzio. Lui fruga nel mio cappello da Alpenjäger, io nel suo stemma del Club alpino polacco, e intanto la notte si dilata. Suona la campana delle sette, poi ecco il rumore di una sega, un muggito, due cani lontani, voci allegre di bambini, una moto che passa verso il fiume. È la Polonia rurale che si prepara alla cena. Mi accorgo intanto che più fa buio, e meglio si vedono i profili delle croci contro le stelle. Lievitano nella notte. Croci cattoliche e ortodosse. Segno che ci sono Russi anche qui.

Il folletto di Krempna si chiama Roman Frodyma, ho già sentito parlare di lui, pare che la sua memoria sia un catasto vivente della sterminata necropoli militare di questa terra di battaglie. È salito dal paese a vedere chi erano i curiosi del crepuscolo. Forse ha pensato che non si sa mai, con i tanti cretini da messe nere in circolazione. Ora che ci ha visti è tranquillo: c’è un diplomatico straniero in visita, un professore di storia, e per giunta due italiani, che da queste parti non si sono visti mai. Credenziali perfette per l’altro mondo.

«Siete in mezzo al più grande universo funerario militare d’Europa» annuncia con solennità. «Quattrocento siti nella sola Galizia occidentale. E ogni sito è unico, una cosa a sé, con la sua personalità, la sua estetica, la sua memoria, le sue iscrizioni in versi dedicate ai Caduti. Erano quasi tutti in rovina, poi sono stati sistematicamente restaurati. Ovviamente, tutto è diventato più facile dopo la caduta del socialismo».

Col procedere della spiegazione, la voce di Roman diventa quella di un nonno che racconta una fiaba ai nipoti. È arcicontento di far da sentinella ai Caduti e, come un altro emerito sovrintendente di cimiteri, il doktor Jaus della Schwarzes Kreuz a Vienna, sembra non avere tempo per la malinconia. Quando, dopo un cerimonioso congedo, lo vediamo ridiscendere verso il paese con passo caracollante e felice, ci vien da pensare che, tra una birra e l’altra, in fondo, non sia quasi meglio una visita ai morti che ai vivi.

Torna il silenzio sulle valli e ognuno si chiude nel suo transumanare. Andrzej sospira, il console attacca coccarde e mormora preghiere, Marina guarda le prime stelle d’inverno sbucare nella notte ancora calda, e intanto io vado a cercare i miei vecchi con zampettare da lupo. Eccoli, i miei cari bastardi dall’anagrafe impossibile, leggo i loro nomi su targhette di maiolica biancazzurra, Johann Bartolich, Franz Pignatari, Michael Kova›, gente mia tirata per la giacca da tutte le nazioni, cognomi non ancora italianizzati dal Fascio e nomi già germanizzati dall’apparato militare dell’impero. Li ho già davanti per l’appello, mi par di leggere l’elenco telefonico di Trieste. E mormoro così, nella mia lingua: “Tuti ve voio, noni, qua vizin; come fioi pici, vegnì che ve struco”.

E via a impizar lumini per el Bizjak – che qua xe scrito Michael su la crose – partido de Gropada el 6 de agosto, e altri per el mulo Pettarin fio del Vipaco, trovà dei gendarmi che el se gaveva sconto su in Tarnova: vignì che femo festa coi ferài, vignì tuti de corsa che tra poco la Luna sona adunata sul pra. L’impero Ka und Ka ve ga ciamado zento ani fa, e de lu no xe rimasti altro che i vostri nomi in zimiterio. Adesso xe la Luna che ve ciama, Luna de pase, Luna de armistizio che più no la fa rima con disgrasia. Sè morti tuti, vedo, de dicembre, col fredo beco che spaca la schena. Un slìvoviz ghe vol qua, per far fraia prima che torni caligo de inverno. Gavè capido voi del Sibenzvanzig, e voi che ve scondè la soto el muro, cufolài nela graia dei Carpazi, Novantasete, marmaia de eroi?

Me piaseria gaver una rimonica e ofrirve un spagnoleto de fumar, farve sentir la bora e el mar che buliga, piera de Repen, tera de dolina, portarve curabiè co la gubana e quela Malvasia bona de Muia e po’ magari un goto de Teran. E qua volesi spander vin e miel sora sta tera negra benedeta, ma no i ga vin sti polachi, e mi, mona, gnanca el miel no go ciolto, ma ve giuro: stasera me imbriago zo a Gorlice, graspa de prugne e dominus vobiscum, viva la clapa e i altri che se ciavi. Anton Cerutti, ti del sibenoinzig, contime come che te son finì nel Demoghèla, qua in tanta malora, con quel cognome talian de regnicolo. E ti, Martin Cvetreznik, dime un poco, che te se ciami come un caro amico tuto inverigolà de consonanti: con chi se ga sposà la tua morosa? De mi te pol fidarte perché vegno de dove che la Bora fa disastri de Miramar fin drento in Piaza Grande.

Rudolf Obreza, che te son sicuro de le montagne dure dei Morlachi, senti che ventisel se ga sveiado. E Martin Zaman, scoltime anca ti, tirite fora de sto tunel scuro e buta l’ocio in alto un pochetin prima che Baba Jaga se scadeni: par che le frizi le stele qua sora e dolze xe la note de novembre… E ti Marini? Franz del Ventisete – s’ciavo o talian no so cos’che te son – scolta ben cosa disi la ziveta e cosa fis’cia pian el pipistrel: “pian pian la se distuda con un color che par de rame e seda”.

E Colarich Antonio de Piran, intanto che bazilo per trovar un fulminante per sta tua candela, no rosigarte l’anima per gnente e vien che femo festa ancora un poco soto sta Luna che par una zivola. Vien che cantemo “el s’ciopo e la gamela” e po mandemo in mona i generai.

Arde il recinto, arde di luminarie bianco-giallo-rosse; a distanza, il colle pulsa di una debole luminescenza e i pini magri del camposanto si colorano di bronzo. Ho perso il conto, non so quanto tempo è passato, se un’ora o un minuto, da quando ho preso a mormorare la mia litania. Andrzej ha smesso di sospirare, Marina tace inchiodata dalla visione, il console slovacco guarda il cielo e mostra di avere un’anima. E il silenzio è tale che si sente la rotazione delle stelle, anzi no, della Terra, che ruota con tutti i suoi boschi, villaggi e lumini, emettendo un cigolio di giunti cardanici e ruote dentate sotto l’occhio del Grande Orologiaio.

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