Nov
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Quella della decadenza da Consigliere Comunale di Antonio Galizia è una vicenda assai intricata. È stata sancita da una sentenza della Prima Sezione Civile della Suprema Corte di Cassazione del 21 ottobre scorso, depositata poi in cancelleria il 13 novembre.
Dopo averlo incontrato, abbiamo voluto ricostruire la vicenda, ascoltando ciò che aveva da dirci per chiarire anche alla cittadinanza quanto accaduto. Lo faremo negli spazi e con la sintesi necessaria nel giornalismo, che riteniamo non esaustiva di tutti i passaggi processuali, ma significativa per far comprendere ai lettori quanto successo. Non se ne abbiano a male i protagonisti pertanto.
Tutto inizia con una controversia instaurata da Antonio Galizia quando ancora non era sceso in politica. Punti di vista differenti, lo avevano portato a citare in giudizio Antonello Natalicchio, allora Sindaco di Giovinazzo. Lo stesso Natalicchio, con Delibera di Giunta, aveva inteso farsi difendere dall’avvocatura comunale poiché le sue affermazioni erano state il frutto del ruolo che ricopriva in quel momento.
Dopo le elezioni del 2012, a Palazzo di Città cambiò la maggioranza. Antonio Galizia intanto era stato candidato Sindaco per il centro-destra ed era quindi stato eletto, nell’Assise comunale, come Consigliere di opposizione. Aveva chiesto e non ottenuto, dalla nuova Giunta intanto insediatasi, il ritiro di quella Delibera che concedeva a Natalicchio la difesa come Sindaco e non come privato cittadino. Insomma, Galizia avrebbe voluto che la controversia si risolvesse per vie privatistiche, ma dal Comune di Giovinazzo gli avevano confermato che si sarebbe andati avanti così.
Nel frattempo è arrivato in Cassazione il procedimento che ha sancito definitivamente l’incompatibilità dell’ex Comandante della locale Stazione dei Carabinieri con la carica di Consigliere Comunale, perché in causa con lo stesso Ente. Ed è stato altresì condannato «al rimborso delle spese in favore del resistente, liquidandole – si legge nella decisione – in complessivi euro 4.200, di cui 4.000 per onorari, oltre spese generali e accessori come per legge».
Al suo posto c’è già da tempo Ruggero Iannone ed i vari gradi di giudizio non hanno quindi cambiato l’esito delle cose.
Ma Antonio Galizia, da uomo tenace quale è, vuol capirci di più. In particolare lui fa riferimento alla funzione nomofilattica della Cassazione. In sostanza, sostiene l’esponente di NCD-Area Popolare, non vi sarebbe stata continuità di applicazione dei principi di diritto sanciti dalla Suprema Corte stessa, sin dal 2007.
Il riferimento è ad una sentenza, emessa il 15 novembre di quell’anno, dalla stessa Prima Sezione Civile che oggi lo ha condannato. In quella controversia, tra un eletto poi dichiarato decaduto ed un Comune irpino, si sanciva che «Nelle cause elettorali incoate dall’amministratore decaduto, la (eventuale) notificazione del ricorso al Comune (al pari di quella al Sindaco, espressamente prevista invece, per il caso di azione popolare, […]) non ha la funzione di instaurare nei suoi confronti un rapporto processuale, ma solo di dargli notizia del procedimento e di conseguenza non ne comporta l’attribuzione di parte processuale, ponendosi l’Ente in posizione neutra in quanto non è titolare di alcun interesse in materia».
In parole povere, la Giunta Depalma avrebbe dovuto chiudere la vicenda, escludendo l’Ente comunale dalla controversia?
La risposta, in quella sentenza della Cassazione del 2007, la si ritrova, ci ha fatto notare lo stesso Galizia, subito dopo, quando la Corte sancisce che «In altri termini, l’Ente pubblico è da ritenersi estraneo al giudizio promosso da colui che sia stato dichiarato decaduto dalla carica elettorale o non eleggibile, anche quando il ricorso miri a ottenere la declaratoria di nullità della relativa deliberazione, in quanto tale giudizio ha per oggetto non la legittimità del provvedimento di dichiarazione di decadenza o di ineleggibilità, bensì la sussistenza del diritto soggettivo alla permanenza nella carica».
A questo si appiglia Galizia, che continua a non comprendere l’andamento a suo parere ondivago dei giudici, che, nel febbraio del 2015 avevano sancito, in un altro giudizio simile, anche che il «diritto al rimborso delle spese legali relative ai giudizi di responsabilità civile, penale o amministrativa a carico di dipendenti di amministrazioni statali o di Enti locali per fatti connessi all’espletamento del servizio o comunque all’assolvimento di obblighi istituzionali, conclusi con l’accertamento dell’esclusione della loro responsabilità, non compete all’Assessore comunale, né al Consigliere comunale o al Sindaco, non essendo configurabile tra costoro […] e l’Ente un rapporto di lavoro dipendente». Insomma non vi sarebbe la possibilità di applicare la disciplina privatistica del mandato.
In buona sostanza, quindi, Galizia si chiede: «possibile sia io l’unico italiano a dover pagare le spese processuali dopo esser stato anche dichiarato decaduto?».
Il Sindaco Tommaso Depalma, dal canto suo, non ha voluto commentare la sentenza, limitandosi a dirci «mi rimetto a quanto stabilito dai giudici. Le sentenze vanno rispettate». Ha poi precisato ad altre testate che il Comune ed i contribuenti non hanno speso nulla.
L’amarezza di Galizia resta e si rafforza in lui la convinzione di aver subito una ingiustizia. Ma il suo carattere tenace non lo ha abbandonato. Conclusasi questa controversia, oggi è pronto nuovamente a scendere in campo. Ed in questo caso non vi sarà alcuna causa di incompatibilità.
Ovviamente la nostra redazione resta a disposizione per precisazioni di carattere tecnico. Come anticipato in precedenza, la sintesi giornalistica, in casi come questo, assai complessi, può essere nemica dell’esaustività. E di questo ci scusiamo semmai dovesse essersi verificato.
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