TRENTO. «Da agosto a dicembre del 1914, la Galizia inghiotte due milioni di uomini, fra morti, feriti e prigionieri, nel solo settore austriaco». Galizia 1914. Su questa pagina della storia si è riflettuto ieri a Rovereto in un incontro organizzato dal Mart, dal Museo della Guerra di Rovereto e dall’Accademia degli Agiati, presso la Fondazione Caritro. Era presente Paolo Rumiz che, con Mario Allegri, dell’Università di Verona, ha parlato del suo ultimo libro, “Come cavalli che dormono in piedi” (Feltrinelli). La discussione che ne è nata ha mostrato un Rumiz disilluso. Il suo pessimismo, però, lo avvicina all’uomo, alla storia e, con lucidità programmatica, lo fa aprire alla scoperta, attraverso le incognite del viaggio. Perché tutto il suo libro è la narrazione di un viaggio (o meglio, un “pellegrinaggio”), fisico ma anche onirico, alla ricerca della verità di una pagina della storia taciuta e rimossa per troppo tempo. L’appartenenza all’Impero austro-ungarico ha portato più di centomila trentini e triestini a combattere sul fronte orientale, nel remoto confine est, quello della Galizia, appunto, regione oggi compresa fra Polonia e Ucraina, allora vero e proprio finis Terrae. È lì che è stata condotta a una mattanza che sarà presto dimenticata. E così saranno dimenticati anche loro, soldati “troppo italiani per essere tedeschi e troppo tedeschi per gli italiani”, poco degni, quindi, del conforto della memoria. Dimenticati per l’ imbarazzo di un’Italia post-bellica infarcita di retorica di stampo nazionalista. Allora la verità era stata manipolata col silenzio, oggi anche con il lessico. Usando in questi ultimi anni il termine generico “Caduti”, ipocritamente vengono ricordati così anche coloro che non sono morti per l’Italia, perché “stavano dall’altra parte”. Il viaggio di Rumiz sul fronte della guerra del ’14-18 è quindi il suo modo di evocare (si badi bene, non commemorare: le commemorazioni sono fini a se stesse) questo centenario. Lo scrittore ha interrogato il paesaggio, ha dialogato con questo, dando voce ai morti. Sono le ombre a farsi sentire: vogliono essere tirate fuori dall’oblio cui le ha condannate una lettura troppo “italiana” della storia. Sono proprio loro che lo hanno spinto a partire e, col cappello di suo nonno (un triestino che ha combattuto sul fronte Est) calato sulla testa, ha visto, lui europeista convinto, come le linee di frontiera rappresentino ancora una frattura, che però ci aiuta a capire la nostra Europa. Nel fronte orientale, infatti, si ha la percezione della continuità della storia che Rumiz non vede come evento lineare, ma “eterno ritorno”: l’instabilità di oggi ha legami con le ferite aperte allora che continuano a sanguinare”. Per questo, dice, la nostra pace è sempre a rischio. E se, come l’autore più volte afferma, è dal culto dei morti che nasce la civiltà, lui ha ritrovato le proprie (le nostre) radici grazie a questo suo “Gran Tour” nell’ aldilà, visitando alcuni dei quattrocento cimiteri austroungarici della Galizia. Qui soldati del Tirolo, dunque dell’impero, sono sepolti accanto a soldati russi, i loro nemici del fronte Est, ai quali è stata data la stessa dignità «con memorabili iscrizioni su pietra che sanciscono – scrive Rumiz – una conciliazione post mortem».

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