di PAOLO RUMIZ

Se appena ora si comincia a parlare liberamente del 1914 e dei nostri soldati sul fronte di Galizia, figurarsi quando si potrà dirla tutta sulle sparatorie dell’ottobre ’53 e il ritorno di Trieste all’Italia nell’anno successivo. Uno studio spassionato e non partigiano su quel tema irto di trabocchetti e influenze internazionali, e soprattutto su cosa accadde a Trieste prima e dopo i morti di Piazza Sant’Antonio, ancora non esiste, né io ho mai avuto tempo di tuffarmi in quel momento della storia triestina. Lo farei, se potessi, anche per depotenziarlo della fiammante retorica che ne impedisce una comprensione piena e priva di pregiudizi. Lo dico, già sapendo che già questa semplice frase è capace di provocare indignazioni.

Il mio unico contributo può essere questo: dire come la vidi a sei anni di età. Sei anni tutti vissuti in un angolo di mondo chiamato Territorio libero. Sei sono pochi per capire, ma abbastanza per sentire in modo veritiero, col candore dell’infanzia. Il Cinquantaquattro fu il primo evento storico che vissi, dunque indimenticabile. Due anni dopo sarebbe venuta la rivolta d’Ungheria, che mi inchiodò alla vecchia radio di mia nonna per giorni, con l’oscura sensazione di assistere in diretta a qualcosa di straordinario. Erano i tempi in cui le radiocronache avevano ancora l’eco stentorea del Ventennio, in cui le campate dei ponti erano infallibilmente “ardite” e la resistenza sempre “strenua”. Aggettivi che ovviamente mi affascinavano.

Per cominciare, già allora sentivo di abitare in una città strana, perché i cognomi dell’elenco telefonico non cantavano per niente. Ovviamente non sapevo trattarsi di cognomi modificati dal Fascio. Dico solo che il mio istinto mi diceva che non erano musicali, dunque assai poco italiani. Niente a che fare con Firenze e Roma. In compenso la città era piena di uomini alti e di donne bellissime, assai più di oggi, e anche di questa specialità non capivo l’origine, che era la nostra genealogia bastarda. E poi una massa miserabile di zona Rena Vecia, padrona di un dialetto oggi perduto, che sognava l’Australia o il Canadà. Le “mlekarice”, che scendevano dal Carso col bidone del latte sulla testa. Le puttane dei vicoli, di cui mio padre parlava con prudenti circonlocuzioni, solitamente orrende. E la puzza di pesce marcio che regnava sul porto vecchio, con gli ultimi carri a cavallo che ne uscivano.

Del resto, immagini sfocate, al di fuori della cerchia familiare. Gli agenti della Polizia civile, nerboruti ma gentili; ricordo che uno di loro mi aiutò ad attraversare la strada e mi diede una pacca sulle spalle che mi inorgoglì. I lamenti per la casa perduta a Portorose. I profughi da Istria e Dalmazia, alcuni dei quali presero alloggio da noi, e dei quali ancora non capivo le dolorose traversie. Il grido del robivecchi, i fabbri ferrai, le tute blu degli operai della Fabbrica Macchine.

A pagina IV

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