di Pietro Spirito

In totale, nei quattro anni di guerra, furono circa 35 mila. Tranne un battaglione, il decimo, che rimase a difendere il Carso, gli altri furono spediti sul fronte dalla Galizia, il più lontano possibile da casa. Qui, tra il 1915 e il 1918, furono decimati, falciati dalle bombe, dalle mitragliatrici e dalle malattie.

Molti finirono dispersi, molti altri prigionieri dei russi che li spedirono nel Turkestan, e lungo la transiberiana, dove le temperature toccavano i 40 gradi d’estate e i 40 sotto zero d’inverno. I russi non si aspettavano una tale massa di prigionieri, e la gestione dei campi di concentramento fu precaria e inadeguata.

Altre centinaia di sopravvissuti alle trincee svanirono nel nulla travolti dalla rivoluzione bolscevica e dalla controrivoluzione: considerati semplici civili liberi, furono però privati di ogni diritto e, senza poter comunicare con le loro famiglie, vennero abbandonati a loro stessi.

Nel complesso morirono a mucchi, e solo dopo il conflitto i loro corpi, sepolti dove capitava, vennero raccolti qua e là in piccoli cimiteri sparsi per la grande Russia. E chi ebbe in sorte di tornare a casa, ma solo dopo il 1920, nelle terre dove adesso sventolava il tricolore, spesso non trovò più né la casa, né i beni, né gli affetti.

Fu questo il destino degli soldati del 97º Reggimento di fanteria dell’esercito comune dell’impero austro-ungarico, composto da uomini arruolati tra il Litorale e la Carniola, da Plezzo/Bovec alla Contea di Gorizia e Gradisca, e poi in Friuli, in Carso, a Trieste e nel sud dell’Istria.

Questi ragazzi parlavano italiano, sloveno, croato e si esprimevano nelle infinite sfumature dei dialetti locali. In più dovevano imparare le tre parlate in vigore nell’esercito: la lingua di comando, la lingua di servizio e quella di reggimento. Ottanta comandi in tedesco da mandare a memoria, oltre alla difficoltà di intendersi con gli altri commilitoni.

Il primo contingente di questa Babele partì l’11 agosto 1914 dalla stazione centrale di Trieste. Una volta arrivati al fronte, il 22 agosto, a sud-ovest di Leopoli, nella Galizia centrale, i fanti vennero subito coinvolti in violentissimi combattimenti e furono obbligati a ripiegare sui Carpazi.

Il decimo Battaglione, l’unico del reggimento a restare nella zona d’origine, partecipò alla difesa del ciglione carsico sull’Isonzo tra il ’15 e il ’16, e fu quasi annientato dalle prime tre offensive italiane.

Fra Trieste, Gorizia, il Friuli, sono molte le famiglie che, ancora oggi, conservano il ricordo di un nonno, bisnonno, zio o cugino arruolato nel 97º Reggimento. Eppure, pubblicamente, la memoria di quei 35 mila soldati è stata letteralmente cancellata, lasciando il posto sul podio agli allori dei 4 mila loro fratelli irredenti. Se è vero che la storia la scrivono i vincitori, è altrettanto vero che la memoria, che della storia è radice, prima o poi torna fuori a chiedere udienza.

Per la Trieste italiana e redenta è ovvio che quelle migliaia di soldati costituissero un impiccio: coltivare la memoria del nemico non è mai buona pratica, e di sol. ito il tempo si incarica di fare il resto.

Ma a cento anni dall’immane macello della Grande Guerra è il momento di fare ordine nei cassetti della storia, ed è per questo il senso della mostra, allestita al Centro Škerk di Ternova, La guerra in casa. La memoria rimossa, che espone oltre 250 foto e cartoline originali, uniformi, documenti, carte topografiche e altri cimeli che ricordano i sacrifici dei ragazzi del 97º.

L’iniziativa è di un privato, l’avvocato Giuseppe Škerk, uomo di vasti interessi e cultura che organizza nel suo centro espositivo iniziative culturali di vario genere. Stavolta, in più, c’è una motivazione personale: il padre di Škerk, Giuseppe (Josip) anche lui, fu tra quelli che partì con il 97º Reggimento, «lasciando – ricorda l’avvocato – quattro figli in tenera età, la moglie in attesa del quinto e un’avviata attività economica». Josip – continua Škerk – «si fece sei anni di prigionia tra l’Ucraina, la Siberia e Tjumen, sul Mare Glaciale Artico», e quando tornò, nel 1920, «trovò già sepolte la moglie e l’ultima bambina, e i beni, requisiti dalle truppe austro-ungariche, devastati negli 888 giorni del fronte sul Carso».

«Pur essendo – nota ancora Giuseppe Škerk nella presentazione al catalogo della mostra – il ricordo di tale periodo, in particolare delle infinite sofferenze di ogni genere che detti militari affrontarono e subirono, ben presente nei singoli nuclei famigliari, sinora non è stata, purtroppo, loro dedicata alcuna pubblica cerimonia od onoranza».

Eppure basta guardare le immagini esposte al Centro d’arte e cultura di Ternova per avere un’idea piuttosto chiara di quale fetta di storia è giunto il momento di recuperare. Nelle immagini seppiate scattate cento anni fa in Galizia rivive non solo un mondo scomparso, ma quello che fu l’orizzonte di un’epoca intera, parte integrante della cultura e del vissuto di Trieste e dintorni. E tanto per sgombrare il campo da equivoci: non c’è alcuna intenzione anti-italiana nell’allestimento della “memoria rimossa”. Anzi, in esposizione ci sono anche immagini e reperti che ricordano le sofferenze dell’altra parte, quelle dei fanti italiani sul fronte dell’Isonzo (nonché dei russi).

La composizione etnica del 97º K.u.K. Infanterie Regiment “Freiherr von Waldstätten” (dal nome del comandante onorifico Georg von Waldstätten”) al momento della sua mobilitazione era così suddivisa: 45% sloveni (compresi gli sloveni triestini), 25% serbo-croati, 20% italiani, 8% vari.

Nella mostra – che ricostruisce gli spostamenti di fronte e le battaglie che impegnarono il reggimento – sono esposte le lettere che i soldati inviavano a casa. Sono scritte in sloveno, in italiano, in tedesco e hanno lo stesso tono, dicono le stesse cose di quelle spedite dai fanti russi e italiani sull’altra linea dei fronti. Straordinaria e simbolica la cartolina prestampata con la frase “Sono sano e sto bene” riportata in tutte le lingue dell’impero, italiano compreso.

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