di Ton Vilalta

Dicono che Franco, galiziano come Rajoy, dividesse i problemi in due categorie: quelli che il tempo sistema, e quelli che nemmeno il tempo può sistemare. Questa potrebbe essere la chiave di lettura dell’intera carriera politica di Mariano Rajoy. Uomo prudente e paziente secondo alcuni, smidollato e attendista secondo altri, Rajoy ha fatto del basso profilo il suo personale stile di governo. A dire la verità, nessuno se n’è stupito più di tanto: questo era stato anche il suo stile nel fare opposizione. Una strategia che non era piaciuta all’ala più dura del suo partito. Dopo la seconda sconfitta di fila, nelle elezioni del 2008, una rivolta all’interno del partito (sostenuta, dicono, dallo stesso Aznar) quasi gli costò la leadership. Rajoy sopravvisse politicamente al congresso di partito di quell’anno e da allora si circondò di una squadra di fedelissimi, insieme ai quali lavorò per impostare un’opposizione che gli somigliasse.

Dal 2008 al 2011 Rajoy fece il possibile per non spaventare e non mobilitare la base del Partito Socialista, lasciando che Zapatero si rosolasse da solo al fuoco della crisi economica, confidando che la leggendaria fedeltà e stabilità dell’elettorato del Partito Popolare (che non scende sotto la soglia dei 9 milioni di voti dal 1993) sarebbe bastata per vincere. Questa strategia diede i suoi frutti nelle elezioni del 2011, nelle quali Rajoy ottenne la più larga maggioranza parlamentare nella storia del PP.

In campagna elettorale si era presentato con un programma vago, reso pubblico appena poche settimane prima delle elezioni, e che, soprattutto, evitava di entrare nello specifico in campo economico, ovvero il campo in cui tutto si giocava. La sua campagna insisteva sul fatto che nel 1996 il PP era riuscito a far uscire la Spagna dalla crisi economica, ponendo le basi per una crescita economica durata 12 anni, e sosteneva di poterlo fare di nuovo. I socialisti, colpevoli loro stessi di aver cavalcato e alimentato la bolla immobiliare tra il 2004 e il 2008, non avevano la possibilità di ribattere coi fatti, ovvero che la crescita era stata in larga parte fittizia, basata su un modello economico insostenibile e irripetibile. E soprattutto che nessun ritorno al futuro del 1996 era possibile.

Se lo stile di un governo si può capire dai primi 100 giorni, Rajoy non si smentì. In attesa delle elezioni di primavera in Andalusia, la regione più popolosa della Spagna e storico feudo socialista, il neopresidente temporeggiò per tre mesi prima di approvare la legge finanziaria che doveva riportare il deficit sotto controllo. Per la cronaca, ad oggi la previsione di deficit contenuta in quella finanziaria (5,3%) è lievitata di quasi un 50% (le ultime stime della Banca di Spagna parlano di un 7,4%) e il Partito Popolare, strafavorito in tutti sondaggi, non raggiunse la maggioranza assoluta dei seggi in Andalusia, permettendo ai socialisti, in coalizione con Izquierda Unida, di conservare il governo regionale.

Secondo Garicano e Fernández-Villaverde, due illustri economisti, docenti all’Università della Pennsylvania e alla London School of Economics (un po’ gli Alesina Giavazzi spagnoli), quel ritardo devastò la credibilità della Spagna sui mercati, spiegando parte dell’impennata dello spread negli ultimi mesi. In un polemico articolo congiunto apparso sul Financial Times, i due economisti denunciarono la passività del governo, la sua incapacità di fissare obiettivi oltre il breve termine e di portare avanti le riforme strutturali necessarie, dilapidando il proprio margine di manovra davanti all’opinione pubblica con una politica di tagli ai servizi pubblici.

Va detto che, se la leadership di Rajoy appare debole, è in buona parte a causa della sua stessa politica comunicativa. Il presidente e i suoi consiglieri sono convinti che Zapatero si sia bruciato da solo, rovinato dal suo desiderio di apparire sui media per rassicurare l’opinione pubblica sull’andamento dell’economia e per difendere le politiche intraprese dal governo per combattere la crisi. Man mano che queste ottimistiche previsioni si dimostravano infondate e le sue politiche inutili o addirittura controproducenti, la sua credibilità si erodeva sempre di più. Tutto questo finì per far cristallizzare l’immagine di un uomo che mentiva sistematicamente. E non si sa che cosa è peggio: un presidente che mente sapendo di farlo o uno che crede nelle sue bugie. Anche per evitare di incappare nello stesso errore, Rajoy, oratore modesto, si presenta di rado davanti alla stampa. E quando lo fa, parla in modo evasivo e sfuggente. Ci sono voluti infatti 9 mesi perché concedesse la prima intervista in TV, e nelle sue contate apparizioni in sala stampa non sono previste domande dai giornalisti. Monti è solito organizzare pletoriche conferenze stampa per presentare i dettagli dei grandi piani di governo, trasformando spesso queste conferenze stampa in una sorta di master class. Si trova a suo agio in questo palcoscenico e sfrutta comunicativamente la sua competenza e quella dei suoi ministri. Rajoy, invece, ha quasi sempre delegato questo compito alla portavoce del governo, Soraya Sáenz de Santamaría. Si è giunti persino ad annunciare una manovra contenente tagli per 10 miliardi attraverso un comunicato stampa.

Nel loro articolo sul Financial Times, Garicano e Fernández-Villanueva, rinfacciavano inoltre al governo di aver giocato, durante la trattativa con la BCE per accedere al salvataggio del sistema bancario, al pericoloso gioco del pollo, con lo scopo di limitare le condizioni imposte: “You cannot play a game of chicken when you drive a car and your opponent, the ECB, drives a tank”, dicevano. Nell’attuale trattativa per la seconda richiesta di salvataggio (questa volta non limitata al sistema finanziario, ma un vero e proprio salvataggio del Paese), Rajoy lo sta rifacendo. Da una parte ha temporeggiato per oltre due mesi in attesa delle elezioni dello scorso weekend in Galizia e nei Paesi Baschi (dove il PP ha ottenuto risultati disuguali: ottimi nel primo caso, pessimi nel secondo), dall’altra sta allungando i tempi della richiesta, giudicata da molti inevitabile, in modo da ottenere, spera, condizioni meno dure da parte dell’Europa.

Camilo José Cela, l’ultimo spagnolo a vincere il premio Nobel per la letteratura e conservatore eterodosso, sosteneva che in “in Spagna, chi resiste vince”. Vedremo se per Rajoy la strategia attendista funzionerà ancora una volta. Altrimenti andrà a ingrossare l’ormai lungo elenco di presidenti e primi ministri europei stritolati dalla crisi.


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