A guidare i pellegrini ci sono delle frecce gialle disegnate per terra, sui cartelli stradali, sulle pietre: su qualsiasi superficie utile insomma. La strada è tracciata, non ci si può sbagliare. Un lungo sentiero che attraversa i boschi e le campagne galiziane, correndo parallelo alle direttrici stradali, si apre davanti ai viandanti. Gli zaini sono carichi, anche troppo (si alleggeriranno durante il percorso, quando si comincia a capire la differenza fra ciò che è indispensabile e ciò che non lo è), le cerate proteggono dalla pioggia e dall’umidità, che resta sospesa nell’aria, formando una nebbia spessa che chiude l’orizzonte. Tutto è pronto. Si parte.
Male. Si parte, male. Il primo cartello che si trova, appena usciti dal villaggio, recita: “Camino de Santiago – Itinerario Culturale Europeo”. Ma si può essere così riduttivi? Da O’Cebreiro abbiamo detto sono 152 km. Ma da Roncisvalle ne sono 737; da Somport 836. 800 km di sudore, fatica, silenzio; 800 km di riflessione ed introspezione; 800 km di preghiere, almeno per chi crede. Perché, non dimentichiamolo, San Giacomo è un apostolo cristiano; ha assistito alla Trasfigurazione di Gesù sul monte Tabor. Ha evangelizzato la Galizia, prima di tornare in Palestina, dove è stato decapitato per ordine di Erode Agrippa nel 44 d.C. I suoi discepoli lo riportarono in Spagna, dove la sua tomba fu ritrovata nell’813 dall’eremita Pelagio, guidato da delle luci, simili a stelle, che illuminavano uno spicchio di terra. Non a caso: Compostela = Campus Stellae. Lì Alfonso II, re della Galizia, ordinò la costruzione di un tempio, poi distrutto dagli arabi e ricostruito, sotto forma di cattedrale, a partire dal 1075.
Giacomo ha dato la vita per la fede; la sua è una storia di umiltà e di gioia, le stesse sensazioni che provano i moderni pellegrini nell’affrontare il cammino. La gioia nell’incontrare altre persone, nel sentire le loro storie, nel trovare risposte nelle parole di chi ti sta affianco. La gioia nell’arrivare alla tua tappa. La gioia nel trovarsi di fronte la cattedrale di Santiago, nell’assistere alla messa solenne per i pellegrini, quando questi vengono benedetti con l’immenso incensiere attaccato al soffitto, che spande la sua nuvola profumata mentre una suora canta a pieni polmoni, spinta (più che accompagnata) da un grandissimo e potentissimo organo. “Se chiudi gli occhi sembra di essere in Paradiso” – questo è Francesco, un mio compagno di viaggio.
L’umiltà nel capire che il fisico, che credevano più prestante, ad un certo punto non ce la fa più; l’umiltà nel tornare ad ammirare il creato che abbiamo intorno. Davide, un agente di commercio di Ferrara che cammina da solo da Pamplona (700 km), ci racconta: “Prima prendevo la macchina anche per fare 100 metri, vivevo tra computer e cellulare, sbeffeggiavo chiunque vedessi passeggiare. Ora mi fermo ad annusare i fiori”.
Non scherziamo, per favore: il Cammino non è la galleria del Louvre.
Per chi lo percorre il significato è molto più ampio. Camminare, faticare, ti dà la possibilità di guardarti dentro, a volte in solitudine, a volte in compagnia. Riscopri te stesso, riscopri i tuoi limiti. Riscopri la fatica e la sofferenza, due stati che l’uomo d’oggi rifugge sistematicamente, invece di affrontarli. Ma lì non puoi: la strada è quella, non si scappa.
Riscopri la necessità di chiedere aiuto, di pregare: ho sgranato più rosari in quella settimana che nel resto della mia vita. Ma non è mai stata una preghiera meccanica, robotica: la contemplazione, vera, dei Misteri può aprirti il cuore e gli occhi su quella che è la tua vita.
“Un rosario ti salva la vita” penso, mentre arranco, da solo, tra Portomarin e Palas do Rei, terzo giorno di cammino, tappa da 23 km: il giorno prima ne abbiamo fatti 42. Le gambe non mi reggono più. Fanno “Giacomo Giacomo”. Inizio a pregare. Lentamente ritornano le energie. Alla fine arrivo. Esausto, ma ci sono. E non per merito mio.
Palas do Rei, poi Arzua, Monte do Gozo e, infine Santiago: queste le ultime tappe. L’ingresso in città avviene domenica 2 settembre, giorno di Sant’Elpidio, la mattina, appena in tempo per assistere alla messa solenne. La cattedrale è maestosa. Non sfarzosa: alla ricca facciata esteriore fa da contraltare l’elegante semplicità interna. L’obiettivo è accogliere, non impressionare.
Per quello c’è l’oceano, a Finisterrae (raggiunta in pullman… abbiate pietà, dopo 152 km!), dove si esaurisce effettivamente il Cammino. Al faro si bruciano, per tradizione, le vesti indossate durante il pellegrinaggio. Si contempla l’infinito (quello leopardiano viene opportunamente recitato). Si ringrazia per esserci arrivati, per aver camminato. Si compra una conchiglia, simbolo del pellegrinaggio.
Lì finiva il mondo, prima del viaggio di Colombo. Lì finisce il nostro viaggio. Tocca tornare indietro. D’obbligo il bagno nell’acqua gelida dell’Atlantico. Ristoratore, soprattutto per i piedi, martoriati dal Cammino.
Ora però comincia la strada più dura, quella verso la quotidianità.

 

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