I precedenti – dagli incidenti presso le Scilly Island nel 1967 a quello davanti alla costa spagnola della Galizia nel 2002 – sono da brivido. E così pure il calcolo dei danni provocati ai diversi ambienti marini e costieri. Ma quando si parla di grossi sversamenti di petrolio in mare, la responsabilità è in genere in capo a mezzi e strumenti di trasporto del petrolio greggio dai luoghi di estrazione ai luoghi di raffinazione e consumo. In genere grandi navi petroliere (tankers) e, in misura minore, oleodotti superficiali (pipe- line) o sottomarini (sea-line). Quello che è accaduto a Taranto assume, invece, connotati di altrea natura proprio per la tipologia di incidente verificatosi e che gli enti di controllo stanno appurando. Tuttavia, il rischio di inquinamento è sempre in agguato pur in riferimento a proporzioni assolutamente diverse. 

Che cosa succede, tuttavia, quando il petrolio finisce in mare? A rispondere è il prof. Michele Mossa, docente di Idraulica del Politecnico di Bari, responsabile del Coastal Engineering Laboratory di Valenzano. «L’immissione di grandi quantità di petrolio negli ecosistemi acquatici provoca una serie di problemi, alcuni immediati, altri a lungo termine. I primi sono i più distruttivi. Il petrolio, infatti, galleggia sulla superficie e impedisce ai raggi solari di raggiungere il fitoplancton sottostante che non può, in tal modo, realizzare la fotosintesi clorofilliana, con tutte le ulteriori conseguenze di interruzione della catena alimentare. Per quanto riguarda gli effetti a lungo termine, essendo il greggio una miscela di differenti e complesse sostanze, quando le parti più leggere evaporano, quelle più pesanti cominciano a scivolare lentamente verso il fondo. Cosicché le carni dei molluschi e dei pesci sopravvissuti alla fase iniziale ne restano impregnate e diventano immangiabili. Gli organismi vegetali e animali che vivono in prossimità dei fondali vengono gravemente danneggiati e uccisi dai residui di greggio che si depositano sul fondo». 

Fra i tanti fattori di sversamento di petrolio in mare, quello di maggiore criticità è costituito dall’età delle petroliere, mediamente di 15 anni. Il 25% delle «carrette dei mari » ha però più di 20 anni (età massima consentita) e per esse non esiste più alcun margine di sicurezza. Attualmente sono ben 66 le navi appartenenti alla cosiddetta «lista nera» redatta dall’Unione Europea a Bruxelles. «Ma la causa più comune che contribuisce ad aumentare il rischio di sversamenti di petrolio in mare – precisa Mossa -, è “l’errore umano”, spesso dovuto alla presenza di equipaggi male addestrati e con scarse competenze professionali, scarsa manutenzione della navi e assenza di sistemi per il controllo dell’intero traffico marittimo». 

C’è poi l’ulteriore fenomeno del lavaggio delle cisterne in mare. Le norme e le leggi non mancano, ma vengono facilmente aggirate. Quello che, invece, si sta cercando di mettere in campo anche nei laboratori del Politecnico di Bari è una sorta di sistema di monitoraggio ambientale attraverso la rilevazione satellitare di quello che avviene e l’elaborazione di modelli matematici sulla base delle previsioni meteorologiche. «Gli attuali sistemi satellitari non sono ancora geostazionari – dice Mossa -. Sono sistemi che stiamo ingegnerizzando e che potranno presto diventare realtà». [Maria Rosaria Gigante]

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